Scott Derrickson riporta sullo schermo «Il Rapace» nel sequel di uno degli horror più inquietanti degli ultimi anni: il telefono squilla di nuovo, e questa volta la paura arriva dall’aldilà.
Ci sono film che non finiscono mai davvero, anche dopo l’ultima inquadratura. Black Phone 2 è uno di questi: un ritorno atteso, disturbante e necessario. Scott Derrickson, già regista del primo capitolo, riallaccia i fili di una storia che non aveva esaurito il suo potere di inquietudine. Dopo quattro anni di silenzio, il telefono torna a squillare: non più solo come oggetto simbolico, ma come portale verso un passato che rifiuta di farsi seppellire.
Trama
Sono passati quattro anni da quando il tredicenne Finn riuscì a scappare dalle grinfie del mostruoso Rapace, lasciando dietro di sé il trauma e la memoria di un’oscura tragedia. Oggi Finn ha 17 anni e tenta di ricostruirsi una vita, mentre sua sorella Gwen (15) comincia a ricevere inquietanti chiamate oniriche dal telefono nero e a vedere visioni di ragazzi perseguitati attorno a un campo invernale. Determinata a scoprire la verità, Gwen trascina con sé Finn verso il misterioso Alpine Lake, dove il Rapace, risorto dall’oltretomba, tornerà a perseguitarli, collegato a segreti familiari che potrebbero cambiare tutto.
Regia, stile e riferimenti cinematografici
Scott Derrickson torna dietro la macchina da presa per questo capitolo con ambizione esplicita: non replicare il primo film, ma “salire di livello”.
Le immagini oniriche, spesso realizzate con effetto “super 8 granuloso”, evocano la sensazione vintage dei vecchi nastri amatoriali, e si combinano con una fotografia che gioca spesso sul contrasto fra bianco della neve e ombra profonda nel bosco, trasformando l’ambientazione in un personaggio minaccioso di per sé.
Il film apre a riferimenti inevitabili: A Nightmare on Elm Street viene citato nei parallelismi col Rapace che agisce nei sogni, con poteri anche fuori dal piano materiale. Il setting del campo innevato richiama le saghe horror ambientate nei boschi (come Friday the 13th), ma qui il gelo diventa metafora dell’isolamento psicologico.
Tuttavia, alcuni critici notano che Derrickson riesca al contempo ad essere visivamente ambizioso e a “esagerare” con queste tecniche oniriche, rischiando di diluire la tensione reale con sovrabbondanza di espedienti stilistici.
Sceneggiatura, strutture narrative e coerenza
Il sogno – e il confine tra reale e onirico – è l’elemento centrale attorno al quale ruota tutto, con Gwen come nuovo fulcro narrativo più attivo rispetto al primo film, che era più incentrato su Finn.
La sceneggiatura cerca di modernizzare il mito del Rapace trasformandolo in una presenza quasi “demoniaca”, che non è più solo un serial killer carnefono ma un’entità che trascende la morte. Qui sorgono tensioni: alcuni osservatori ritengono che l’intreccio tenti troppo di giustificare le sue azioni, introducendo elementi religiosi che a volte entrano in conflitto col tono horror puro.
Il film alterna flashback, sequenze oniriche e momenti da “thriller campestre” con una certa ambizione, ma in alcuni tratti si percepisce uno sforzo di spiegare troppo, di ricongiungere troppe linee narrative, con il rischio di far perdere nettezza al nucleo emotivo.
Performance degli attori
Madeleine McGraw regge il peso narrativo con gravitas: Gwen è una protagonista tormentata, empatica e credibile, in bilico fra rabbia, paura e responsabilità. Molti recensori la indicano come l’elemento più solido del film.
Mason Thames, pur in un ruolo più contenuto, porta il trauma residuale di Finn con coerenza – ma il copione gli offre meno spazio rispetto al primo film.
Ethan Hawke torna come Rapace, ma il personaggio risente della trasformazione in “entità soprannaturale”: alcune sfumature che lo rendevano ambiguo e inquietante nel primo film sono ridotte, e il Rapace rischia di diventare un “Freddy Krueger senza battute”.
Il resto del cast (tra cui Jeremy Davies nei panni del padre) si muove su uno sfondo narrativo abbastanza standard, con alti e bassi.
Montaggio, ritmo, colonna sonora, costumi
Il montaggio alterna sequenze oniriche, visioni e passaggi “veri” con una certa rapidità, ma in alcuni punti la percezione è di un eccesso di momenti “esplicativi” che rallentano l’azione.
La colonna sonora – composta da Atticus Derrickson – sostiene le atmosfere con toni cupi e momenti musicali che rinforzano il gelo emotivo, senza scivolare nel manierismo.
I costumi sono sobri, adeguati al contesto contemporaneo e ai luoghi isolati, senza particolari velleità estetiche: servono il racconto anziché imporsi.
Tematiche e interpretazioni
Il film lavora molto attorno al tema del trauma, della memoria e dell’eredità familiare: il passato non è mai sepolto, e la morte non basta a chiudere le ferite. Il rapporto fra i fratelli, lo sforzo di proteggersi a vicenda, è una corda emotiva che sorregge molte sequenze.
C’è una forte tensione fra fede e orrore: il campo è cristiano, molte visioni hanno simbologie religiose, e il Rapace assume talvolta le fattezze di un demone che giudica. Questo conflitto fra spiritualità e male terreno è ambizioso, ma rischia di far vacillare il tono horror se non rimane ben bilanciato.
Altro filo di riflessione: la linea fra sogno e realtà – l’orrore si manifesta nei sogni, ma ha conseguenze fisiche — un tema caro alla grande tradizione horror, che qui viene ripreso con rispetto e personalità.
Punti di forza e limiti
Punti di forza:
- Una protagonista (Gwen) molto più incisiva e centrata rispetto ad altri horror.
- Il coraggio di trasformare il Rapace in figura soprannaturale, espandendo la mitologia senza stare fermi.
- Ambientazione suggestiva e atmosfere ben costruite, con uso deliberato del bianco/gelo per accentuare il vuoto e la solitudine.
- Momenti di vero terrore, e sequenze oniriche riuscite.
Limiti:
- Talvolta la sceneggiatura inciampa nel voler spiegare troppo, col rischio di perdere la tensione.
- Il Rapace, trasformato in entità ultraterrena, perde parte del fascino ambiguo che aveva nel primo capitolo.
- Il ritmo potrebbe risultare altalenante per chi predilige un horror più focalizzato sull’azione che sull’idea.
Giudizio finale e riflessioni
Black Phone 2 è un film che tenta un salto qualitativo rispetto al suo predecessore: non si limita a replicare la formula, ma osa ampliarsi, entrando in territori più visionari e inquietanti. Il rischio era grande, e qualche sbavatura c’è, ma la pellicola è sostenuta da una convincente performance di Madeleine McGraw e da scelte visive spesso coraggiose.
Il regista voleva creare una continuazione che fosse allo stesso tempo più oscura e più matura, spingendo il Rapace oltre la morte e trasformando il confine fra sogno e realtà in un teatro dell’orrore attivo — e in buona parte ci riesce. Le sensazioni che lascia sono di timore persistente, solitudine, ma anche di speranza tenue: anche l’orrore più profondo può essere affrontato, se non da soli.
In definitiva, Black Phone 2 è un sequel riuscito a metà: non sempre perfetto, e con qualche troppe ambizioni da digerire, ma capace di aggiungere un tassello interessante all’universo horror contemporaneo. Se amate l’horror che gioca con la mente e le emozioni, vale la pena immergersi in questa nuova chiamata.
