Luca Mosso: «Il futuro è nei film che sanno interrogare il presente»
Dal 15 al 23 novembre torna il Filmmaker Festival, la storica manifestazione milanese dedicata al cinema di ricerca, che da oltre quarant’anni rappresenta uno spazio libero per le immagini più audaci e le narrazioni più consapevoli.
Novanta film, nove giorni di proiezioni e decine di ospiti animeranno gli schermi dell’Arcobaleno Film Center, della Cineteca Milano Arlecchino, della Cineteca Milano MIC e di Careof. Un viaggio nel cinema che sperimenta, riflette e osserva il mondo con sguardi nuovi, perché – come sottolineano gli organizzatori – in un momento tragico ma non privo di speranze, alla testimonianza occorre affiancare la riflessione.
Il programma si articola in sette sezioni – Concorso Internazionale, Concorso Prospettive, Fuori Concorso, Retrospettiva VALIE EXPORT, Filmmaker Moderns, Interferenze e Filmmaker Expanded – con 38 prime mondiali e 14 prime italiane.
Abbiamo incontrato Luca Mosso, direttore del festival, per parlare del senso di fare cinema indipendente oggi, del rapporto tra Milano e la produzione audiovisiva e delle sfide che attendono i giovani autori.
Filmmaker è da oltre quarant’anni uno spazio di libertà creativa e di sguardo critico sulla realtà. In un’epoca dominata dalle piattaforme e dalle immagini veloci, cosa significa oggi difendere l’idea di un cinema indipendente e “necessario”?
«Pensare che il cinema debba esistere solo in sala sarebbe un atteggiamento perdente, quasi donchisciottesco. Fare un festival oggi significa confrontarsi con il sistema globale delle immagini e con le nuove modalità di visione. Dopo il Covid abbiamo notato un ricambio generazionale importante: l’età media del nostro pubblico si è abbassata a 35 anni. È una generazione che guarda quasi tutto in streaming, ma quello che un festival può offrire – e che nessuna piattaforma può replicare – è un’esperienza condivisa.
Ti siedi accanto a persone che hanno scelto di uscire di casa per vedere proprio quel film, e insieme scoprite opere che spesso non arriveranno mai nei circuiti tradizionali. È un atto di comunità temporanea, di confronto con gli autori e con chi, come te, cerca nel cinema qualcosa di più. Questo rapporto con la città è fondamentale: portare a Milano opere uniche e d’avanguardia significa non solo offrire cultura ed emozione al pubblico, ma anche stimolare chi il cinema lo vuole fare.»
Si parla spesso di un “nuovo modello Milano” contrapposto a Roma. Esiste davvero un modo diverso di fare cinema nel capoluogo lombardo?
«È l’idea su cui Filmmaker è nato negli anni Ottanta. Roma è da sempre il centro dell’industria, con i grandi finanziamenti e la produzione tradizionale. Ma negli ultimi quindici anni, grazie al digitale, la soglia di complessità e di costo si è abbassata enormemente: oggi una persona sola può realizzare un film che, fino a poco tempo fa, avrebbe richiesto una struttura industriale. Milano, da questo punto di vista, è fertile: ci sono molte scuole, accademie e realtà formative che si stanno aprendo al cinema e all’animazione. È una città dove convivono industria creativa, pubblicità, arte e sperimentazione. Certo, le retribuzioni non sempre sono all’altezza, ma il sistema è più aperto, più dinamico.»
Il documentario è spesso definito il linguaggio più autentico del nostro tempo. Qual è il filo rosso che unisce i film di questa edizione?
«Abbiamo costruito il programma cercando sempre quelle aree difficili da definire, dove il cinema si spinge oltre i confini. Nel Concorso Internazionale ci sono autori che sono ormai nostri riferimenti – Abbas Padel, Koshnudi, Ben Reaves, James Benning, che è un habitué del festival – ma anche nuovi nomi come Fabrizio Bellomo e Adrian Paci, che vive a Milano e presenta un corto intenso, Merging Bodies. Ci sarà poi Di Notte dell’artista svizzera Anouk Chambazé e Mater Insula di Fatima Bianchi, autrice lombarda che lavora in Francia. Sono opere che si muovono in territori ibridi, lontani dalle formule del cinema tradizionale, e che mettono in discussione la forma stessa del documentario.»

C’è anche un’attenzione al pubblico giovane. Cosa direbbe a un diciottenne che vuole avvicinarsi al festival?
«Direi di venire senza preconcetti, perché quasi tutto merita di essere scoperto. Quest’anno abbiamo scelto di dedicare una particolare attenzione al Medio Oriente, un tema che attraversa più film. C’è Yes di Nadav Lapid, regista israeliano che firma un’opera molto dura e lucida su quanto sta accadendo a Gaza, e Tales di Abbas Padel, girato tra i bombardamenti nel Sud del Libano. Sono lavori che ci obbligano a stare nel presente, a non dimenticare le emergenze umanitarie. Il motto che accompagna questa sezione è Put your soul in your hands: metti la tua anima nelle tue mani. È un invito a guardare, ma anche a prendere posizione.»
Filmmaker ha formato e sostenuto intere generazioni di autori. Qual è oggi la sfida più grande per il cinema indipendente a Milano e in Italia?
«Credo sia la capacità di immaginare dove gli altri non stanno guardando. È il destino degli inquieti, di chi cerca territori ancora sconosciuti. Le tecnologie hanno reso l’accesso più semplice: oggi, con poche migliaia di euro, puoi girare un film che regge perfettamente su uno schermo da tredici metri. Il problema non è più tecnico, ma creativo. Serve investire nella scrittura, nella progettazione visiva, nella consapevolezza dei dispositivi che si vogliono usare. Un film non nasce solo dall’idea, ma da una visione coerente.
Se riusciremo a insistere su questo, Milano può diventare un laboratorio di qualità, capace di farsi notare a livello internazionale. La vera sfida è sempre la stessa: fare bei film, pensati bene. E forse anche le scuole dovrebbero aggiornarsi su questo punto.»
In un tempo di immagini effimere, Filmmaker Festival 2025 ribadisce che il cinema può ancora essere un atto di pensiero. A Milano, città che corre ma non dimentica la riflessione, l’invito è chiaro: guardare, discutere, creare insieme.

