“Chi racconta la sua storia ha il potere di riscriverla.” È questa la sensazione che si prova guardando Better Man, un biopic che sfida le convenzioni del genere con un immaginario straordinario e una vena di surreale ironia. Michael Gracey, dopo il successo di The Greatest Showman, torna con una pellicola che fonde biografia, musical e introspezione in un turbine di emozioni.
La trama: tra successo e abisso
Il film ripercorre la parabola di Robbie Williams, superstar del pop britannico: l’infanzia segnata dal complesso rapporto con il padre, l’esplosione planetaria con i Take That negli anni ’90 e l’ascesa al trono della musica da solista nel decennio successivo. La celebrità, però, ha un prezzo: le luci dei riflettori cedono il posto alle ombre della solitudine e della dipendenza, fino alla rinascita, umana prima che artistica. La particolarità? Robbie non è rappresentato da un attore in carne e ossa, ma da una scimmia digitale, un alter ego grottesco e irresistibile, che amplifica il lato dissacrante e autoironico della narrazione.
Un musical che sfida la realtà
Better Man si distingue per la sua anima ibrida: un racconto che si snoda tra sequenze live action e numeri musicali spettacolari, dove la CGI non è semplice contorno, ma parte integrante del linguaggio visivo. Michael Gracey orchestra un tripudio visivo e sonoro, in cui le coreografie e i brani di Robbie Williams vengono reinterpretati in una dimensione quasi onirica.
Le scene più incisive sono quelle in cui il protagonista affronta i propri demoni interiori in surreali battaglie danzanti, richiamando per stile il visionario Moulin Rouge! di Baz Luhrmann e l’estetica malinconica di Birdman di Alejandro González Iñárritu, dove la sovrapposizione tra reale e immaginario si fa fluida e inquietante.
Le scelte stilistiche: una riflessione sulla fama
La regia di Michael Gracey riesce a bilanciare momenti di esuberanza visiva con intime riflessioni. La decisione di rappresentare Williams come una scimmia digitale non è solo una trovata estetica, ma un’efficace metafora: l’uomo-primate che oscilla tra gli istinti più elementari e il desiderio di essere amato. Questa scelta sottolinea la tensione tra il performer e l’uomo, tra la maschera pubblica e le fragilità private.
Il film si avvale di una fotografia ricca di contrasti firmata da Erik Wilson, che alterna colori vividi e saturi nelle scene di performance a toni cupi e desaturati nelle sequenze più intime. Le musiche di Batu Sener, unite ai successi di Robbie Williams, amplificano l’effetto emotivo: il pubblico viene immerso in un’esperienza sensoriale totale, tra nostalgia e inquietudine.
Un giudizio finale
Cosa voleva comunicare Better Man? Più che un semplice racconto di ascesa, caduta e rinascita, il film riflette sulla lotta costante per restare fedeli a sé stessi in un mondo che ti impone di essere qualcun altro. La scelta di un registro ironico e surreale non sminuisce il dramma, ma lo rende ancora più penetrante: sotto la superficie del grande show, batte un cuore dolente e autentico.
Better Man è un inno all’umanità imperfetta, capace di emozionare e far riflettere. È un biopic che, a differenza di molti suoi predecessori, osa essere diverso, ambizioso e imperfetto. Michael Gracey ha reso omaggio non solo a un’artista, ma a una filosofia di vita: cadere e rialzarsi, sempre a modo proprio.
Per gli spettatori che amano il cinema capace di sfidare le convenzioni e dialogare con le emozioni profonde, questa pellicola rappresenta un’esperienza imperdibile.