Alessandro Redaelli è un giovane regista con alle spalle tre film che hanno avuto un ottimo successo. La sua indole documentaristica e sperimentale è ciò che lo contraddistingue.
I contesti periferici nel cinema
L.L. Partendo da “Funeralopolis“, il tuo primo lungometraggio, vorrei parlare della narrazione di queste realtà crude. Ci sono davvero pochi registi che realizzano lavori su questi temi così importanti ma così periferici. È una cosa che registro anche nel mio ambito, la poesia. Perché accade, o meglio non accade, secondo te?
A.R. Perché è scomodo, banalmente. Sembra un po’ una frase fatta, effettivamente, però questo tipo di realtà non fanno comodo a nessuno. Mettono la città in cui sono ambientate sotto una luce meno scintillante di quella che di solito si cerca perché portano a galla delle problematiche che si cercano di nascondere in ogni modo. Forse anche perché non c’è una vera e propria soluzione rispetto a tutte le problematiche più complesse. Si cerca prima di allontanarle e poi di nasconderle.
Nello specifico con l’eroina. Ad esempio io quando ho girato “Funeralopolis” il puntello era in centro a Milano, sostanzialmente, a Rogoredo. Dal 2015-2016 quando ho iniziato a girare il film a oggi tutti i puntelli sono stati spostati nelle periferie, non sono più nella città. Non si è cercato il problema di questa cosa, si è semplicemente allontanata. Se è un po’ più distante se ne parla meno.
Sostanzialmente il grosso problema è questo. Tenendo anche conto che quel film, io, l’ho fatto da solo, senza finanziamenti e senza il supporto di una casa di produzione potevo permettermi di parlare di queste cose qua. Io dubito che attraverso un tipo di produzione più tradizionale, come quella che passa dai bandi statali, si sarebbe riusciti a fare questo tipo di film.
La non-fiction
L.L. Credi che il docufilm o il documentario siano più impattanti della fiction?
A.R. No, questo non lo credo. Anzi, paradossalmente, è più impattante la fiction per una questione molto semplice, ovvero che la fiction arriva a più persone. Nel momento in cui hai una platea più grande, per forza di cose puoi anche cambiare più facilmente quello che ti sta attorno.
Il documentario viene visto, mediamente, come una cosa un po’ pallosa, un po’ scolastica. Io cerco, nello specifico, di fare documentari che prendano anche un po’ la pancia, che assomiglino in qualche modo al cinema tradizionale, in modo da arrivare a una platea più larga. Questa cosa, però, nel documentario la fanno veramente in pochi. I documentaristi, di solito, sono persone integraliste che mettono il linguaggio del documentario, paradossalmente, sopra a quello che deve raccontare. Quindi finisce, poi, per fare qualcosa di interessante ma che non arriva di fatto a nessuno, se non al pubblico da festival.
Comunque ti dico no: il cinema di finzione ha quella capacità lì in modo più prorompente. Ti faccio un esempio banale. Parlando di Palestina, negli ultimi due anni sono usciti due lavori: un documentario e un film di fiction. Quello di fiction, “La voce di Hind Rajan”, ha avuto un impatto molto più forte. Poi, è vero che ha dentro degli inserti di documentario, è una storia vera uno a uno, però è filtrata dalla fiction e la fiction arriva a tutti. Il documentario no.
Il cinema a Milano
L.L. Guardando “Funeralopolis” mi è venuto in mente il film “Fame chimica”.
A.R. “Fame chimica” è uno dei pochi film ambientati a Milano. Probabilmente per quello ti è venuto in mente, che è una roba drammatica perché ci sono pochi film ambientati qui e quei pochi finiamo per sovrapporli.

