Il ritratto disturbante di un carnefice in fuga tra memoria e presente
Non c’è redenzione, né assoluzione, nello sguardo con cui La scomparsa di Josef Mengele ci costringe a osservare uno dei volti più oscuri del Novecento: c’è solo una lunga, inquietante permanenza nel male.
Il nuovo film di Kirill Serebrennikov, presentato fuori concorso al Festival di Cannes e tratto dal romanzo omonimo di Olivier Guez, arriva nelle sale italiane dal 29 gennaio con Europictures come una delle opere più radicali e scomode del recente cinema europeo. Un film che rifiuta ogni facile consolazione e sceglie, deliberatamente, di abitare il punto di vista del carnefice.
Una fuga lunga trent’anni
Ambientato nel secondo dopoguerra, La scomparsa di Josef Mengele segue gli anni della latitanza del medico nazista noto come “l’Angelo della morte”, responsabile di esperimenti disumani sui prigionieri di Auschwitz. Dopo la caduta del Terzo Reich, Mengele riesce a fuggire grazie alle reti di protezione che permisero a molti gerarchi nazisti di rifugiarsi in Sud America. Tra Argentina, Paraguay e Brasile, il film attraversa tre decenni – dal 1949 al 1979 – raccontando una vita in fuga fatta di identità false, isolamento e paranoia, fino all’incontro con il figlio Rolf, che costringe l’uomo a confrontarsi con il proprio passato.
Il racconto evita il finale e si concentra su ciò che accade lungo il percorso: la trasformazione di un criminale braccato in un fantasma che sopravvive ai margini della Storia.
Il punto di vista del male
La scelta più forte – e più controversa – di Serebrennikov è quella di raccontare tutto dal punto di vista di Josef Mengele. La macchina da presa non giudica apertamente, non interviene, non “corregge” lo sguardo. Osserva. Segue. Registra.
È un dispositivo che richiama il cinema di Jonathan Glazer in La zona d’interesse, ma qui spinto ancora più in là: non c’è distanza, non c’è ellissi consolatoria. Lo spettatore è costretto a convivere con il carnefice, a respirare la sua paura, la sua ossessione, il suo progressivo svuotamento umano.
Il risultato è un’esperienza disturbante, volutamente sgradevole, che rifiuta qualsiasi estetizzazione del nazismo e lavora invece sulla banalità del male, secondo una lezione che rimanda inevitabilmente ad Hannah Arendt e alla riflessione filosofica sul rapporto tra individuo e Storia.
August Diehl, un corpo che diventa prigione
Al centro del film c’è una prova attoriale di straordinaria potenza. August Diehl interpreta Josef Mengele senza mai cercare empatia o spiegazioni psicologiche. Il suo è un corpo rigido, scavato, che invecchia scena dopo scena, come se la fuga stessa fosse una lenta forma di decomposizione.
Diehl lavora per sottrazione: pochi gesti, sguardi sfuggenti, una voce spesso trattenuta. Il personaggio non chiede comprensione, non offre giustificazioni. Esiste, semplicemente, come una presenza tossica che attraversa luoghi e relazioni senza mai appartenervi davvero.
Accanto a lui, Burghart Klaußner e gli altri comprimari contribuiscono a costruire un mondo opaco, fatto di silenzi, complicità e rimozioni, in cui il male non è mai un’eccezione ma una possibilità latente.
Regia, montaggio e stile
Dal punto di vista formale, La scomparsa di Josef Mengele segna una svolta rispetto ad altri film di Serebrennikov come Limonov o La moglie di Tchaikovsky. Qui lo stile è asciutto, controllato, quasi ascetico.
La fotografia predilige toni spenti, terrosi, che riflettono l’idea di una vita consumata nell’ombra. Il montaggio frammenta il tempo, salta avanti e indietro senza mai offrire una linea rassicurante, restituendo la sensazione di un’esistenza sospesa, senza radici né futuro.
Le ambientazioni sudamericane non sono mai esotiche: diventano spazi di reclusione a cielo aperto, giungle mentali prima ancora che fisiche. Anche la colonna sonora è ridotta all’essenziale, spesso assente, lasciando spazio ai rumori ambientali e al peso del silenzio.
Un film sul presente
Serebrennikov lo dichiara apertamente: La scomparsa di Josef Mengele non parla solo del passato. Parla del presente, della rimozione, del negazionismo, della facilità con cui la memoria storica può essere distorta o messa in discussione.
Il film dialoga con il nostro tempo, in cui riemergono pulsioni autoritarie, revisionismi e semplificazioni pericolose. Raccontare la lunga impunità di Mengele significa interrogarsi su ciò che la Storia ha scelto di dimenticare, o di non vedere, e su quanto sia fragile la linea che separa la giustizia dall’oblio.
Limiti e scelte radicali
Un’opera così rigorosa non è priva di rischi. La durata, il ritmo rarefatto e l’assenza di un contrappunto morale esplicito possono risultare respingenti per una parte del pubblico. È un film che non intrattiene, non accompagna, non consola.
Ma è proprio in questa radicalità che risiede la sua forza: La scomparsa di Josef Mengele chiede allo spettatore uno sforzo etico prima ancora che estetico. Guardare diventa un atto di responsabilità.
Uno sguardo necessario
Alla fine, il film di Kirill Serebrennikov si impone come un’opera necessaria e scomoda, che rifiuta la retorica della memoria per interrogare il nostro rapporto con il male, la colpa e l’impunità. Non offre risposte, ma pone domande urgenti: cosa significa ricordare? Chi decide cosa merita di essere raccontato? E soprattutto: siamo davvero sicuri che certi fantasmi appartengano solo al passato?
Un cinema che ferisce, inquieta e resta addosso. Ed è proprio per questo che conta.

